Diga di Molare: una ferita per tutto l’Ovadese
Ottantaquattro anni fa il crollo che provocò la morte di 111 vittime figlia dell'ingordigia e della grettezza d'animo
OVADA – «Ciò che ferisce è la consapevolezza che non si è trattato di fatalità, come da qualche parte si è tentato di affermare, ma di ingordigia di denaro, di grettezza d’animo unite a profonda insensibilità da parte di personaggi di spicco e influenti rimasti perciò impuniti, consapevoli del pericolo che non hanno esitato a calpestare con il disprezzo e la sete di guadagno i diritti di una popolazione operosa e inconsapevole… ». Alessandra Arzone perse, con il crollo della diga secondaria di Molare, i genitori. Lei stessa, che quel tragico 13 agosto 1935 aveva 9 anni, fu strappata alle acque da Marco Barisione dei Natalini. Allevata dai nonni, e diventata adulta, si laureò prima in Chimica Industriale, poi in Farmacia per diventare studiosa e docente universitaria di Entomologia e Zoologia. La tragedia senza colpevoli prese forme dalle luci dell’alba di quel giovedì, in un anno fino a quel momento considerato siccitoso. E dire che le nuvole nere sullo sfondo furono salutate dai contadini con un moto di speranza. A Ortiglieto iniziò a piovere alle 6.00. A Molare e Ovada il nubifragio arrivò alle 7.30. «I dati pluviometrici registrati in tutte le stazioni del circondario furono per quei tempi sconcertanti – ricorda il geologo Vittorio Bonaria che all’evento ha dedicato nel 2013 il volume “Storia della diga di Molare: il Vajont dimenticato” – anche se del tutto assimilabili eventi recenti , ottobre del 2014 ad esempio. In meno di 8 ore si verificò una precipitazione pari a quasi il 30 per cento di quelle medie annue per quelle zone. Alle 12.30 circa le acque del torrente incominciarono a tracimare sopra i due sbarramenti». Un’ora dopo la Diga Secondaria, nata come semplice sbarramento, e tutta la Sella Zerbino collassarono sotto la spinta di una massa d’acqua e fango stimata tra i 20 e 25 milioni di metri cubi d’acqua. I primi a farne le spese furono due viandanti di Cassinelle, alloggiati in un ostello nei pressi. Nell’ora successiva l’immane ondata seminò morte e distruzione, a partire dal crollo del ponte di Molare, poi alla Rebba, in Regione Carlovini fino a spazzare via il Borgo di Ovada. Dall’impianto, incredibilmente sprovvisto di collegamento telefonico, non partì alcun allarme.
Le cause «È errato pensare che solo l’abbondanza delle piogge sia alla base di quel che accadde – prosegue Bonaria – Il progetto iniziale fu più volte rivisto con due scopi: aumentare la capienza del lago e contenere i costi. Tra il 1924 ed il 1925 iniziarono le operazioni di invaso molte delle quali abusive. I sopralluoghi evidenziarono ripetutamente cospicue perdite d’acqua. Si provò a porre rimedio con innesti cementizi sulla roccia di scarsa qualità. Il collaudo del 1927 non fu eseguito alla quota di massimo invaso». Tutto per permettere alla Officine Elettriche Genovesi, costola della potentissima Edison del tempo, di ottenere il suo scopo. La quota di massimo invaso fu stabilita 322 metri sul livello del mare. Il guardiano Abele Deguz e gli ingegneri del Genio Civile preposti al controllo periodico provarono a segnalare i problemi, senz’essere presi in considerazione. «In anni precedenti – raccontano dall’Accademia Urbense – le piogge furono anche più abbondanti, ad esempio nel 1915».
Le case aperte come libri L’acqua dilagò nelle zone basse di Ovada, in regione Carlovini, località Monteggio (sotto Cremolino). E poi nel Borgo che all’epoca era uno dei centri pulsanti dell’economia cittadina, sede di imprese floride e all’avanguardia. «Per tutta la vita, davanti ai nostri occhi di bambini spaventati – ricorda Walter Secondino, autore de “Il Borgo prima del crollo della diga di Molare” – resterà la visione di quell’onda maledetta che stritolò le cose, elevando al cielo, in una nube di polvere, l’ultimo segno di vita di chi non ebbe scampo». Del totale di 111 vittime accertate, 60 trovarono la morte nella porzione di città oltre il fiume. Resistettero il ponte della Veneta e il solidissimo muro dello Sferisterio che deviò l’acqua. Il bilancio complessivo: 35 case crollate alla località Borgo di Ovada, 20 alla Ghiaia di Molare, 15 alla Rebba. Crollati i ponti di Molare, di Ovada e di Belforte Monferrato. Distrutti boschi, campi; danneggiata la ferrovia per Alessandria e le strade. Un mare di melma ribollente a nascondere le macerie.
Un processo con tante ombre Il 28 Maggio 1938 la Regia Corte d’Appello di Torino promulgò la sentenza di assoluzione nel processo penale riguardante «il crollo della Diga Sella Zerbino» per tutti gli imputati per non aver commesso i fatti a loro attribuiti. La difesa contò su un team di avvocati di altissimo profilo, tra i quali spiccava il gerarca fascista Roberto Farinacci, un’ agguerrita truppa di consulenti e periti che riuscirono ad addossare sulle cause naturale tutte le responsabilità. Il progettista finale, Vittorio Gianfranceschi, morì ancora prima del crollo, portandosi via segreti e omissioni. Il giorno dopo la tragedia si trasmise un secondo allarme sul crollo della diga principale: gran parte della popolazione si raccolse, per ore di ansia e paura, nella parte più alta verso Tagliolo. Fu il parroco, don Beccaro, a intimare alle persone di tornare a casa. L’Edison, forse per ripulirsi in minima parte la coscienza, ospitò i bambini rimasti orfani nella sua colonia di Suna di Pallanza dove studiarono e impararono una professione. «Migliaia di persone – ricorda ancora Secondino nel suo libro – parteciparono ai funerali delle prime 70 vittime del disastro. Le bare furono allineate nella grande Casa del Fascio (ora Teatro comunale). Presso di loro furono deposte decine di corone di fiori, tra cui quella del Capo del Governo, del Segretario del Partito Fascista, del Prefetto della Provincia, delle Federazioni dei Fasci di tutta la Provincia». Piangere era l’unica cosa si potesse fare.
Una tragedia dimenticata Nell’immediato la stampa non diede grande risalto ai fatti. Ne diede molto di più quando in visita arrivano il re e Achille Starace, all’epoca segretario del Partito Nazionale Fascista. Dopo la seconda guerra mondiale i fatti della diga secondaria furono progressivamente dimenticati. «Lo spopolamento delle campagne – conclude Bonaria – fu un fattore decisivo. Così come l’isolamento attorno alla diga».