Serenity – L’isola dell’inganno
Il film, per struttura e intrigo, si presta a molteplici e non semplici letture
CINEMA – Il problema con Serenity – L’isola dell’inganno, scritto e diretto dal regista e sceneggiatore inglese Steven Knight (autore dalla fine degli anni Novanta di programmi e serie tv di successo quali Peaky Blinders, Taboo e lo show Chi vuol essere milionario?, oltre che degli script di Piccoli affari sporchi di Stephen Frears e La promessa dell’assassino di David Cronenberg), è la coerenza interpretativa: il film, per struttura e intrigo, si presta a molteplici e non semplici letture.
Il plot è, in apparenza, fra i più lineari, l’ambientazione esotica, i personaggi principali fortemente caratterizzati: nella cittadina di Plymouth, mar dei Caraibi, vive la propria tranquilla esistenza il capitano della Serenity, Baker Dill (Matthew McConaughey), che per vivere accompagna in battute di pesca ricchi oziosi, sognando la cattura di Justice, un tonno dalle dimensioni colossali. La quiete viene turbata dall’inatteso arrivo di Karen (Anne Hathaway), ex moglie di Baker in fuga insieme al figlio Patrick dalla violenza del nuovo marito, Frank (il Jason Clarke di Apes Revolution – Il pianeta delle scimmie), con una proposta inquietante: uccidere il proprio persecutore, in cambio di dieci milioni di dollari.
Da questo incipit si snoda una trama densa di eventi e colpi di scena, abbastanza prevedibili nella concitazione e nel ritmo forsennato di una pellicola che rientra, almeno in partenza, a pieno titolo nel genere giallo-thriller a indirizzo psicologico, con tutti gli stilemi del caso. I protagonisti della storia presentano, da questo punto di vista, una loro schematicità: il capitano coraggioso, la fanciulla in pericolo, il cattivo, sadico e con punte di follia.
Sino a qui nulla di nuovo, al massimo si può rimproverare al regista-sceneggiatore una certa banalizzazione di temi, situazioni e figure, nella quale è facile scivolare data la creazione a getto continuo di narrazioni simili da parte dell’industria cinematografica.
Quando, però, la storia di Serenity subisce una sorta di deflagrazione di genere e senso, virando verso la metafisicità, il dramma esistenziale e lo sci-fi movie (il vecchio filone di fantascienza, aggiornato e ricco di contaminazioni e riferimenti trans-cinematografici), il discorso e l’effetto a livello di fruibilità spettatoriale muta, ponendo serie questioni filologiche.
La critica americana, dunque (e non solo quella) si è clamorosamente divisa all’uscita del film, da un lato propendendo per la stroncatura feroce di un’opera lacunosa, superficiale e di maniera nel tratteggio di contesti, personaggi e perfino nella rilettura di due generi “classici” della cinematografia; dall’altro, invece, riuscendo a percepire, poco oltre la superficie, un sottotesto più problematico e significante, hitchockiano e, al limite, wellesiano, del meccanismo a scatole cinesi di La signora di Shangai (1947, con Karen-Anne Hathaway impegnata a rimodulare la femme fatale incarnata da Elsa-Rita Hayworth).
Diciamo che sono praticabili entrambe le opzioni interpretative: se lo spettatore sceglie di addentrarsi più in profondità nell’intreccio, interrogandosi sulla sfaccettata personalità di Baker (il quale, a sua volta, si interroga su se stesso, sulla realtà che lo circonda, sulla “verità”, o meglio su ciò che riteniamo tale), sull’ambiguità di Karen, sulla stranezza dello sfondo, allora è immediato lo scivolamento su di un ulteriore piano di realtà, quello – per intenderci – evocato da The Truman Show di Peter Weir nel 1998, da Matrix dei fratelli Wachowski l’anno seguente, per approdare alla multidimensionalità di Inception di Christopher Nolan o alla manipolazione del reale e delle menti in Shutter Island di Scorsese (non a caso, entrambi del 2010).
Se può essere relativamente semplice per uno sceneggiatore di comprovata esperienza come Knight costruire una narrazione attingendo dal potentissimo serbatoio di immagini e motivi appena citato, è anche vero che la gestione del medesimo, specialmente se l’obiettivo è quello di produrre qualcosa di altrettanto originale ed efficace, rischia di procurare non pochi problemi stilistici e narrativi.
È, forse, il caso di questo Serenity – L’isola dell’inganno.
“Sono sempre stato incuriosito, per diversi motivi, dalle brave persone che fanno cose brutte per una buona ragione, come succede in questo film – spiega il regista – Mi interessa anche il concetto di scelta e di libero arbitrio, perché è difficile capire se li abbiamo davvero. Una volta che fai una scelta è fatta, ma quello che hai deciso sarebbe accaduto comunque o è davvero dipeso da te? Volevo prendere un personaggio e metterlo in una situazione in cui all’inizio è convinto di fare delle scelte ma poi un po’ alla volta comincia a chiedersi se quello che ha deciso di fare in fondo non gli sia stato imposto”.
Serenity
Regia: Steven Knight
Origine: Usa, 2019, 106′
Sceneggiatura: Steven Knight
Fotografia: Jess Hall
Montaggio: Laura Jennings
Musica: Benjamin Wallfisch
Cast: Robert Hobbs, Matthew McConaughey, Kenneth Fok, Jeremy Strong, Jason Clarke, Garion Dowds, Djimon Hounsou, Diane Lane, Anne Hathaway
Produzione: Starlings Entertainment, Shoebox Films, IM Global, Global Road Entertainment
Distribuzione: Lucky Red, Universal Pictures