Max Biglia ricorda Cesira Pettenuzzo
Il presidente della Confraternita degli Stolti omaggia la donna
VILLAMIROGLIO – Mercoledì è mancata Cesira Pettenuzzo, madre del sindaco di Villamiroglio Paolo Monchietto. Il presidente della Confraternita degli Stolti Max Biglia, anche lui di Villamiroglio, omaggia questa “donna di una volta” e ricorda la figura ormai scomparsa di un mondo contadino sommerso da una finta modernità.
Le esequie si celebreranno oggi, venerdì 19 luglio alle ore 17 nella Chiesa di Santo Stefano in frazione Vallegioliti (Villamiroglio).
«Son partita giovineta par venir qui a lavorar e quando me toca de andar te vojo dir addio e, speruma che qualcheduno se ricorda». Queste, le parole annotate sul mio taccuino, che voglio celebrare e che proprio oggi, mi fanno compagnia. Parole di un tempo senza tempo, che ho custodito, in questo frenetico bisogno di incontri, verità, storie, voci, umanità e respiri. Vicende buffe, inverosimili, difficoltose; vicende di un mondo che non esiste quasi più, fatto di donne e uomini coraggiosi ma allo stesso tempo fragili, emblema di un esodo che movimentava la nostra Italia. Decine e decine di persone spinte dal bisogno, migravano dalla terra natia con valige di sogni e speranze. La povertà più assoluta, la fatica, le umiliazioni, parole strazianti che raccontano il distacco e le incertezze che ben si prestano a fare da sfondo a quel passaggio della storia del nostro paese, dove i “migranti” erano gli italiani. Usi e costumi si sono impastati, sfumature, linguaggi, diversità che emergono da questa mia scatola di carta dove ogni tanto rovisto, e dove ritrovo un unico rumore: la sonorità della memoria.
Una carezza che si attorciglia alle mie gambe, alle mie braccia e che non mi lascia andare. Ci sono ricordi, una manciata di aneddoti, sensazioni, un cancello oltre il quale ognuno di noi ha una strada che ha percorso per anni o per pochi giorni. Una porta che si è aperta e chiusa per sempre, quelle mura, che di solito odorano di antico, cibo buono e genuinità. Occhi celesti che affogano dentro l’armonia di gesti semplici. È un pensiero vivo, continuo, un pretesto per ritornare là, tra quelle donne e quegli uomini di campagna, una dimensione umana custodita dagli alberi, dai libri e dalle parole, una buona ragione per sorridere e riflettere di questa vita sparpagliata e mascalzona.Ancora quattro passi per arrivare in quel luogo, con il fiatone e con la serenità stampata in faccia a quel cancello ormai arrugginito ma abitualmente aperto per accogliere. Un piccolo tavolo dentro e fuori casa, un paio di sedie affiancate, era quello il momento delle litane, dei pettegolezzi, delle vicende che avevano segnato quei vissuti.Una cesta di colori e profumi portata a casa dall’orto e poi altri frutti di queste terre ancora dentro il grembiule annodato a dovere.
Adesso, ad un’età di mezzo, osservo questa fase della vita attraverso evoluzioni, decadimenti, reminiscenze e lo sguardo curioso di mia figlia, mentre una bizzarra, quasi piacevole nostalgia per quelle case di passaggio di questo mio paese e di questo popolo che manca mi avvolge per mantener fede alla promessa “che qualcheduno se ricorda”.
Il tempo ora tace e attonita la mia riflessione rincorre questa fiumana di anime in cui svanisce un mondo intero. Non si possono e non si devono rimpiangere le fatiche, i disagi e le oscurità, ma certo, il rammarico è per aver messo a tacere proprio la parte più umana, le comunità, i rapporti, l’autenticità,e aver indossato invidie, ipocrisie, sotterfugi e tanta, troppa meschinità in una ripetizione liturgica di meccanicismi bizzarri.
Torniamo a casa dunque. A casa, come utero materno, ventre creativo, modernità, calore ancestrale, condizione dell’anima. Contadini scavati dalla saggezza che trascende la cultura, tralasciamo la furbizia e i comportamenti rituali che rimangono nelle storie tramandate, torniamo esseri umani, madri, padri che affondavano nella terra dei principi.
Torniamo a casa, ovunque sia.