Al Rangone: “suona ancora, chitarra mia”
Suona chitarra, Gilda, Preghiera, Vela bianca sono canzoni nel cuore di generazioni di italiani e, grazie al web, stanno scoprendo un nuovo pubblico. Il cantante e musicista alessandrino racconta alcuni aneddoti di una carriera straordinaria, e svela i nuovi progetti autunnali
Suona chitarra, Gilda, Preghiera, Vela bianca sono canzoni nel cuore di generazioni di italiani e, grazie al web, stanno scoprendo un nuovo pubblico. Il cantante e musicista alessandrino racconta alcuni aneddoti di una carriera straordinaria, e svela i nuovi progetti autunnali
Roberto, ormai tutti sanno che il tuo soprannome d’arte, Al, è un omaggio alla tua città…
E’ così: ho vissuto e lavorato 12 anni in Spagna, dal 1968 al 1980. E lì, a forza di vedermi in giro con la mia vecchia auto targata Al, qualcuno ha cominciato a chiamarmi Al Rangone. Mi è piaciuto, e l’ho adottato come nome d’arte.
Ma la tua carriera di cantante era cominciata molto prima: con i calzoni corti, letteralmente: anni eroici?
Anni bellissimi, anche se poveri. Ma del resto chi non ha bei ricordi della propria gioventù? La mia fu splendida: ero figlio unico, mio papà faceva il barbiere al Cristo e, come tutti i barbieri a quei tempi, sapeva suonare la chitarra, e la teneva appesa ad una parete in negozio. Strimpellandola ogni tanto con qualche amico, tra un taglio di capelli e una barba.
Ti ha insegnato lui i primi accordi?
Certo, e poi ho proseguito da autodidatta. Ho cominciato a cantare i classici dell’epoca, dalle canzoni di Claudio Villa ai testi inglesi storpiati, intorno ai 9-10 anni, e a 14 già mi esibivo come voce di un gruppo, nelle tante balere alessandrine. Erano gli anni Cinquanta, c’era una gran voglia di vivere, di ripartire. Ricordo quei circoli, dal Cristo agli Orti, in cui le mamme portavano le figlie 18enni a ballare, rimanendo tutto il tempo sedute ai bordi della sala, con il cappotto sulle ginocchia, a vigilare che non succedesse nulla di sconveniente.
Tu già allora pensavi di fare il cantante e musicista per mestiere?
Assolutamente sì. A 16 anni arrivò il primo contratto vero, con firma per autorizzazione di mio papà e mia mamma. Voce solista del gruppo Paolo Martino e i filosofi: suonavamo in diversi locali di Torino, di Milano, e in giro per le province naturalmente. Sono stato con loro 3 o 4 anni, ma nel frattempo partecipai anche a Castrocaro, nel 1963, e al Cantagiro nel 1966. Diciamo che furono anni divertenti, anche se non tutto andò per il verso giusto: con qualche “pezzo” più nelle mie corde avrei potuto sfondare davvero, ne sono certo. Sanremo sarebbe stato alla mia portata, e all’epoca si trattava di un palcoscenico unico in Italia.
Ma non ti sei perso d’animo, e hai fatto l’artista emigrante: perché la Spagna?
Era la fine del 1968, e capitò l’occasione: un gruppo italiano cercava una voce solista per un mese di concerti a Madrid e dintorni. Accettai: e ci restai 12 anni.
E qui ci devi raccontare….
Eh, ma ci vorrebbe un libro, e anzi magari lo scriverò presto: su questo e altri periodi della mia vita. Comunque: feci due anni con il gruppo italiano, poi ne costituii uno mio, di musicisti spagnoli. Un paio dei quali sono poi andati a suonare stabilmente con Julio Iglesias, che allora muoveva i primi passi. E altro che seduttore, all’epoca era un bel “gordo”: cicciotello insomma.
Amori spagnoli?
Amori, esperienze di vita, amicizie. Suonavo parte dell’anno a Madrid, e parte a Bilbao. Erano gli anni del Franchismo, ma questo non significa che in Spagna trasgressione e divertimento non esistessero, anzi. Pensa che ancora adesso, con google maps, ogni tanto vado su Internet e guardo il portone d’ingresso del palazzo dove vivevo. In quell’appartamento ne abbiamo fatto di casino: una volta ho invitato a cena 12 ragazze del corpo di ballo. Spaghetti per tutti, ma non c’era una pentola adatta: abbiamo condito la pasta nel bidet. Ma pulitissimo, garantisco. Un’altra volta abbiamo lanciato la mia vecchia moto, ormai spompata, direttamente dalla finestra del quarto piano, e l’abbiamo guardata disintegrarsi sugli scogli.
Perché decidesti di tornare? Nostalgia della nostra nebbia e del dialetto?
Un po’ anche quello, come della mia famiglia. In realtà però il ciclo spagnolo si era chiuso: mi ero molto divertito, avevo fatto anche diversi concerti in Messico. E certamente avevo anche sprecato occasioni e opportunità, ma questo fa parte della vita di ogni uomo. Comunque nel 1980 sono tornato e, te lo dico senza vergogna, mia madre mi mandò i soldi per il biglietto aereo: avevo guadagnato tanto, e speso altrettanto. Come sempre nella mia vita.
E’ a quel punto che è nato Al Rangone, re della musica da ballo?
In quegli anni, certo. Da un lato mia madre insisteva, come tutte le mamme, perché mi trovassi l’impiego fisso: tanto che andai a lavorare in provincia, e chi ha studiato negli anni Ottanta mi ricorda senz’altro bidello all’istituto Nervi. Solo che di indossare la divisa non ne volevo sapere: e andavo al lavoro così elegante che tutti pensavano fossi il preside…
Ma l’amore per la musica ha vinto, alla fine….
Sempre: quando una passione ti scorre nel sangue, puoi solo assecondarla. Al rientro dalla Spagna, tramite mio cugino Franco (anche lui apprezzato musicista, ndr) conobbi Eugenio Del Sarto, autore e compositore che già aveva avuto esperienze e collaborazioni con grandi artisti. E lì nacque, oltre che una forte amicizia che dura tuttora, il sodalizio artistico che, nel giro di qualche anno, ci ha portati ad essere definiti i Battisti e Mogol della musica da ballo.
La svolta vera, del tutto inaspettata, c’è stata con Suona chitarra, che ebbe un successo enorme, e si contese a lungo la hit delle vendite con Attenti al lupo di Lucio Dalla. Da lì, è stato un crescendo, con tante altre canzoni, tra cui, se ne devo citare solo qualcuna, dico Gilda, Preghiera, Vela Bianca (con una grande interpretazione di Nilla Pizza), Rumba. Ma naturalmente quello che amo di più è un pezzo meno famoso, molto autobiografico: Quell’uomo son io.
Quello della musica da ballo è un mondo che in tanti hanno sempre sottovalutato. Perché?
E chi lo sa? I primi responsabili sono certamente i discografici: ci hanno snobbati a lungo, anche quando andavamo alla grande, e solo a metà degli anni Novanta, per citarti il mio caso personale, sono stato messo sotto contratto, per cinque anni, dalla Sugar di Caterina Caselli. Ma, anche lì, senza convinzione e senza investimenti. Caso Bocelli a parte, rimango convinto che se avessero investito su Al Rangone la minima parte di quanto hanno puntato su altri nomi italiani (molto promossi, e dalle vendite assai scarse, ndr), non se ne sarebbero pentiti. Ma va bene così: noi andiamo per la nostra strada. E ci toglieremo ancora parecchie soddisfazioni. Tra l’altro, ho scoperto di recente che Internet e youtube stanno facendo conoscere il mio repertorio ad un pubblico in parte assolutamente nuovo.
Hai una vitalità sorprendente…
Mi sento ancora la voglia di “spaccare il mondo” come quando avevo vent’anni, e finché sarà così chi mi ferma? Certo però i ritmi che tenevo vent’anni fa, onestamente, non riuscirei più a reggerli: sai che siamo arrivati a fare 25 serate in un mese? E ad ogni serata si vendevano centinaia e centinaia di musicassette direttamente al pubblico in sala.
Ora però i concerti torni a farli anche all’estero, è così?
Certo: a settembre esce il mio nuovo cd, sempre in collaborazione con Del Sarto: i nostri classici, più quattro o cinque pezzi nuovi, in versione acustica. E poi, a ottobre, si parte per una mini tournée di 7/8 concerti in Canada, con un circuito di locali piuttosto prestigiosi. Anche ai tempi della Spagna, a pensarci bene, era cominciata così: e sono stato via 12 anni!